Il Consorzio Corertex sostiene la linea dei dazi doganali sui piccoli pacchi provenienti dall’Asia: “Valido aiuto per la filiera tessile”

Il presidente De Salvo appoggia l'ipotesi del governo di inserire in Finanziaria dazi doganali di due euro sui piccoli pacchetti provenienti da Paesi extra Unione Europea: “Così si difende il Made in Italy e si prova ad arginare il problema del fast fashion”

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La scelta di Bruxelles di dare il via libera alla linea italiana per la tassazione sui piccoli pacchi provenienti dai mercati asiatici venduti on line, ottiene consensi anche a Prato. La modifica del regolamento doganale da parte dell’Ecofin, che introduce la tassa sulle consegne che hanno un valore fino a 150 euro, finora esenti da imposte doganali, riceve il plauso del Consorzio Corertex, Riuso e Riciclo Tessile.

“Apprendiamo da fonti di governo che è allo studio in Finanziaria l’introduzione di dazi doganale di 2 euro sui piccoli pacchetti in arrivo da Paesi extra UE – commenta il presidente Raffaello De Salvo -. Una misura da noi caldeggiata insieme ad altre durante il tavolo di crisi del settore raccolta e riuso tessile che si è tenuto lo scorso settembre al Mase. Questa misura, oltre che difendere il Made in Italy e tentare di arginare il problema del fast fashion, potrebbe essere un valido aiuto per la filiera del recupero tessile. Secondo un censimento del 2024, infatti, sono stati consegnati in Europa circa 4,6 miliardi di piccoli pacchetti, in continuo incremento, di cui oltre il 90% provenienti dalla Cina e il calcolo di quante risorse ci sarebbero a disposizione per il recupero tessile è molto semplice”.

De Salvo sottolinea di avere partecipato a diversi panel durante la fiera internazionale ‘Ecomondo’ e in tutte le discussioni ricorda di avere percepito che difficilmente ci saranno risorse a disposizione della filiera del recupero tessile fino all’entrata in vigore della responsabilità estesa del produttore, cosa che nella migliore delle ipotesi verrà messa a regime non prima del 2027. “Durante l’incontro di Roma era stata ipotizzata anche l’idea di inserire in manovra delle risorse da destinare alla filiera, da noi stimate in circa 50 milioni – aggiunge -. Ma vedo anche questa ipotesi poco probabile visto che la coperta è corta. Ricordo che il fast e super fast fashion, oltre ad avere un’etica produttiva alquanto discutibile, sono responsabili di oltre 100 milioni di tonnellate di rifiuti tessili all’anno che difficilmente sono valorizzabili. Questo perché non adatti a riuso e riciclo. Rifiuti che però noi siamo costretti a gestire. Questi dazi, invece, potrebbero tamponare il problema, sia come deterrente che come risorsa”.

Il presidente di Corertex ricorda poi che esiste poi un altro problema legato al fast fashion orientale. “I giganti della potenza manifatturiera cinese si rivolgono sempre di più al mercato globale essendo il loro modello di business dipendente dall’elevato fatturato e dal consumo di massa, con particolare attenzione all’Africa – conclude -. Il continente importa enormi quantità di vestiti di seconda mano, un mercato consolidato da anni e che produce ricchezza e posti di lavoro e concede la possibilità di vestirsi a oltre il 65% della popolazione che vive con meno di 5 dollari al giorno. Noi siamo in contatto con diverse associazioni di second hand africane che ci sollevano un dubbio. Il sospetto, ed è molto più di un sospetto, è che la strategia di questi colossi orientali sia quella di donare ingenti somme di denaro, si parla di diversi milioni di euro, a fondazioni e organizzazioni, non solo africane, che promuovono informazioni sul presunto impatto negativo del mercato dell’usato in Africa. Queste organizzazioni sono esplicite nel promuovere l’affermazione che quasi la metà delle importazioni di seconda mano consiste in indumenti inutilizzabili che finiscono nelle discariche. Ma queste affermazioni sono state smentite da rapporti di studio. Chi esporta indumenti usati (non rifiuti) emette fattura che viene regolarmente pagata e vengono pagate le tasse di importazione (che in Africa sono molto alte). Quindi chi pagherebbe tutto questo per poi buttare quasi tutto in discarica? Il problema delle discariche in Africa esiste, certo, d’altronde erano presenti anche 20 anni fa. Ma di certo non a causa delle importazioni di second hand. Il problema lì è la totale mancanza di infrastrutture destinate al recupero dei rifiuti di qualsiasi genere, perché qualsiasi cosa a fine vita, sia esso usato, nuovo, di un famoso brand o fast fashion, finisce inesorabilmente in quelle discariche a cielo aperto”.