A quindici anni dal suo ultimo giorno di scuola, il professor Luigi Nespoli— per generazioni di studenti e rugbisti semplicemente “il Preside” — continua a parlare con la stessa passione di un tempo.
Dalla sua casa di Prato, dove vive dal 1989, osserva la scuola di oggi “sui giornali e attraverso gli occhi dei nipotini” e confessa con un sorriso: “Mi manca la scuola, l’amavo a tal punto che non mi sembrava mai di lavorare.”
La scuola come vocazione.
Per oltre quarant’anni ha vissuto tra cattedre, corridoi e campi sportivi. Prima come insegnante di Lettere, Storia e Filosofia, poi come preside dell’Istituto Magistrale Gianni Rodari, del Liceo Sociopsicopedagogico e infine anche del Liceo Classico Cicognini di Prato.
“La cosa più importante è la didattica — dice con convinzione — insegnare bene in modo da non annoiare. Nessuna riforma vale se non sappiamo motivare gli studenti.”
Dietro quella passione c’è un ricordo lontano, legato alla Napoli degli anni Sessanta: una classe di ragazzi difficili, che leggevano solo Diabolik.
“Usai proprio quel fumetto per appassionarli alla lettura. Diventarono bravissimi in Italiano. È il mio ricordo più bello.”
Il rugby come scuola di vita.
La sua storia però non è solo quella di un dirigente scolastico, ma anche quella di un pioniere del rugby educativo, un uomo che vide nello sport una forma di filosofia applicata.
Il primo incontro con la palla ovale avvenne ai tempi del liceo, grazie a un professore di Educazione Fisica: “Fu amore a prima vista”.
Da allora non ha più smesso — prima giocatore, poi allenatore e infine promotore del rugby femminile scolastico.
Negli anni Ottanta, al Liceo Umberto I di Napoli, furono proprio le studentesse a chiedergli di poter giocare anche loro. Nacquero così le prime squadre femminili e persino la Federazione Italiana Rugby Femminile (FIRF), guidata da una giovane studentessa, Marta Grillo.
“Rischiai l’espulsione dalla Federazione, perché allora il rugby femminile era proibito. Ma non mi arresi: per me il rugby è libertà, rispetto e coraggio”.
E i risultati arrivarono. Celebre il torneo mondiale di Amsterdam, dove le ragazze del Cicognini e del Rodari affrontarono la selezione statunitense, formata da atlete della Nazionale USA.
“Le mie ragazze risero di fronte a quelle giganti. Una di loro mi disse: Preside, non ci dica niente se non torniamo vive! Perdemmo, ma solo per tre mete a una: l’unica meta subita dalle americane in tutto il torneo.”
Il rugby che educa.
Per lui la palla ovale non è mai stata solo un gioco, ma un modo per educare:
“In campo impari che la sconfitta non è una tragedia, ma un’occasione per migliorare. Ai timidi dà intraprendenza, agli aggressivi il controllo di sé.”
Molti suoi studenti trovarono nel rugby una via d’uscita da situazioni difficili. “Il peggiore nemico è la droga, assieme all’indifferenza verso gli altri. Sul campo impari che nessuno vince da solo.”
E poi l’inclusione: fece giocare anche ragazzi con disabilità, come Fabrizio Pinori, “il giardiniere rugbista” del Rodari, simbolo di forza e speranza.
“Nel rugby trovò un modo per andare avanti. E tutti noi con lui.
La poesia del rugby.
Oltre al campo e alla scuola, il Preside ha sempre scritto. Poemi, racconti, riflessioni.
“Scrivo come se qualcuno mi dettasse le parole. I versi non portano messaggi: sono richieste d’aiuto affidate al mare dai naufraghi.”
Nel suo poema Rugby, citato persino dal telecronista Paolo Rosi durante il Sei Nazioni, ha trasformato la fatica del gioco in arte, il contatto in umanità, la mischia in metafora.
Un rugby poetico, che insegna a vivere insieme e a rispettarsi anche nelle cadute.
Un’eredità che resta.
Oggi, a distanza di anni, a Prato continua a seguire i tornei giovanili e a incoraggiare le nuove generazioni.
“Segniamo belle mete solo quando i giocatori usano la creatività. Copiare gli altri non serve: il rugby è pensiero, non automatismo.”
Quando gli chiedono come descriverebbe il proprio stile da preside, risponde senza esitazione:
“Aver impedito la distruzione della scuola e aver fatto di tutto perché fosse vero il rispetto di tutti verso tutti.”
E forse è proprio questa la sua più grande vittoria: aver insegnato che tra i banchi, come in campo, il gioco più bello è quello giocato insieme.












